Aperta in laguna la XVII Biennale di Architettura

[dal nostro inviato speciale Alessandro Colombo]

A suggellare la fine (si spera) di un lungo periodo di reclusione pandemica, rotto, invero, dalla coraggiosa mostra Le Muse inquiete e dalla Biennale cinema lo scorso anno, la Biennale Architettura segna il ritorno a Venezia del grande pubblico, anche internazionale, e ha dato il via a dei fine settimana nei quali la quantità di persone che hanno assiepato campi e calli ha quasi eguagliato quelle abituali prima del lockdown.
Acclarato questo doveroso riconoscimento e registrato un dato di fatto cosa possiamo vedere fra Giardini e Arsenale, non senza qualche significativo evento in città? Una Biennale pensata due anni fa e messa in scena oggi. Di per sé questo non significherebbe nulla se la rassegna pensata allora non fosse che l’epilogo di un processo in corso da tempo e che il disastro pandemico ha solo cristallizzato, rendendolo un main stream che non sembra portare molte novità e risposte alla precisa domanda How We Will Live Togheter?

Come vivremo insieme? quesito oggi cruciale, sembra così una domanda retorica o, ancor meglio, una domanda che raccoglie a sua volta una miriade di quesiti che fotografano una situazione a mille facce accomunate da una prognosi infausta. La morte del pianeta e della specie umana (già celebrata nella XXII Triennale di Milano che, almeno, forniva soluzioni per una dolce dipartita) diventa qui affaire dove gli architetti e l’architettura hanno poco a che fare, se non comparire al massimo come colpevoli che si premurano di trovare qualche palliativo in attesa che il pianeta veda l’avvento di una nuova specie dominante (minerale?).

La mostra di Hashim Sarkis, preclaro esponente del pensiero che soffia da oltre oceano su una Europa tutto sommato incerta, si impegna a documentare la domanda iniziale con una serie di sezioni tematiche che allegri tendalini variopinti scandiscono nel sempre affascinante spazio delle corderie dell’Arsenale e nel sempre orfano (del Paese ospitante) padiglione centrale ai Giardini. Una modalità espressiva, sostanzialmente basata sull’installazione come strumento di indagine e denuncia, che fa sempre di più assomigliare questa Biennale di Architettura a quella d’Arte, che si articola in cinque sezioni, tre all’Arsenale: Among Diverse Beings, As one Planet, As new Households, due ai Giardini: As Emerging Communities e Across Borders.

La chiave di lettura si muove fra ecologia e antropologia, fra sistemi e cultura, in una relazione tra corpi, spazi, protesi e biologia, che fanno trionfare api, funghi, terre, terricci, muffe e alghe che sembrano prendere, in molte installazioni, il sopravvento su una specie umana e animale ormai in procinto di lasciare il passo al mondo vegetale/minerale, se non addirittura a qualche comunità ultraterrena. L’adattamento e la convivenza coi microbi, non sono solo una lezione tratta dalla pandemia, ma una chiave di alleanza con la natura oltre la sfera dell’umano.

La confusione allegramente(?) imprecisa di “Future Assembly”, cuore della mostra sulla terrazza interna del Padiglione centrale ai Giardini, comunica un’improvvisazione allestitiva e grafica che non rende giustizia all’Antropocene, pur sempre il grande imputato di questa Biennale (e del main stream del pensiero occidentale contemporaneo). A questo punto ci aspetterebbe di vedere presentata la capacità del progetto di dare risposte alle emergenze climatiche, umanitarie, ambientali, economiche e di sopravvivenza. Ma qui gli allestimenti, sempre molto artistici, si fanno meno chiari e meno convincenti, ripercorrendo argomenti noti ed evitando il problema del disegno degli spazi della convivenza a vantaggio delle grandi riflessioni sui sistemi e i disequilibri del mondo.

La storia cambia, e non poco, nei padiglioni nazionali. Lasciato a parte quello italiano (necessario un esame a parte per i molti aspetti che vi si sommano, anche storicamente, e che creano una sofferta divaricazione fra ricerca, di livello, e risultato comunicativo, spaziale e ambientale molto meno convincente) i commissari nazionali hanno cercato di rispondere alla domanda originale rifugiandosi nella Storia, in buon numero, utilizzando l’arma dell’installazione a tema, con alterni risultati, o anche scegliendo il vuoto come risposta assoluta. La Storia è porto sicuro e permette di tornare, senza sentirsi in colpa, alle buone pratiche del passato illustrando metodiche costruttive virtuose, per lo più basate sull’utilizzo del legno, grande protagonista quest’anno. Non si può non notare l’epopea del Baloon Frame statunitense, anche perché una struttura in scala 1 a 1 si erge davanti al padiglione (e quasi sembra una divisione col mondo) e una deliziosa rassegna di modellini rigorosamente in legno popola l’interno; la delicatezza del padiglione finlandese che documenta i sistemi costruttivi a cavallo della seconda guerra mondiale dei quali l’architettura ospitante di Alvar Aalto è pezzo di bravura; la documentazione storica della Grecia, ben ordinata in una sorta di accumulazione di calendari pret-a-porter; il laboratorio modello del Belgio, manuale di architettura declinato con l’uso del pannello ricomposto in tutte le sue forme. Sul fronte installativo la instagrammatissima Spagna (l’uso di fogli di carta per costruire lo spazio e narrare la condizione umana è estremamente efficace) e l’Olanda, raffinato labirinto di grafica di diretta derivazione moderna e colorata, tengono alte le sorti del vecchio continente, mentre Israele mette in scena un racconto fra terra, latte e miele, che ti seduce con l’uso del lamierino per un grande modello di una stalla perfetta da una parte, per un casellario da obitorio per l’osservazione autoptica della specie dall’altra. L’installazione è più familiare in Danimarca, dove l’acqua piovana diventa tisana per i fortunati visitatori del sistema a ciclo continuo, trionfo di tubi, serbatoi, teli; efficacemente visiva nelle video installazioni della Francia; coloratamente artificiale nei giardini di delizie che l’Inghilterra vorrebbe ispirati da Bosch.

In città, al contrario, il padiglione di Taiwan punta sul nero ottico per portare la riflessione sugli spazi di comunità e meditazione per l’uomo calato nella natura. Il ricordato tema del vuoto si pone come l’alfa e l’omega della narrazione di questa Biennale. La Russia appare sorprendentemente vuota, ma subito si capisce che il vuoto presenta un ottimo restauro di un’architettura che ora è pronta per raccontare, mostrare, comunicare nelle prossime edizioni. La Germania è, al contrario, ideologicamente vuota, scandendo lo spazio in bolli maglia tre metri: un metro per me, un metro per te, un metro fra noi due, e cedendo ad un abbaglio, di origine pandemica, che vuole il mondo rappresentabile in un QR code, o meglio in molti QR code che dovrebbero indurci ad entrare in una dimensione virtuale con prognosi positiva al 2038 e, invece, ci confermano che nulla può sostituire lo spazio reale e l’esperienza che ne possiamo trarre percorrendolo e godendone.

Come sempre una Biennale da visitare e sulla quale riflettere, portandosi però al seguito una progettualità costruttiva per provare a trovare soluzioni per il futuro prossimo.

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